Per quanto ne so il grande disegnatore di caratteri Giambattista Bodoni (1740-1813) non ha mai messo piede sull’isola di Manhattan. Il maestro che ha progettato la famiglia tipografica omonima e il Manuale Tipografico (1818) ha trascorso gran parte della sua vita a Parma, dove oggi un imponente, solitario, cattedratico museo contiene molti dei suoi punzoni originali. Comunque il suo Bodoni, capolavoro di tipografia moderna, è visto da molti come un prototipo del carattere ufficiale di New York. Non perché, allo stesso modo in cui l’Helvetica costella il labirinto dei trasporti sotterranei, esso compaia ovunque, su tutti i camion dell’Ufficio Igiene municipale o come carattere preimpostato di centinaia di attività e istituzioni da Staten Island a Westchester. Ma perché il Bodoni esalta il senso dello stile della città, il suo orgoglio.
Il Bodoni è la perla dei caratteri (anche se, bisogna ammetterlo, i gioiellieri della Fifth Avenue Tiffany e Cartier non l’hanno utilizzato nei loro logotipi). E al contrario di quanto sembri a una prima occhiata, la CBS, già spumeggiante rete televisiva e radiofonica newyorkese, usava la propria versione del Didot invece del Bodoni – e questo carattere, che mostra lo stesso contrasto fra tratti spessi e sottili, rimane molto bello.
Il Bodoni ha una storia a New York. Si diffuse tra gli stampatori della città nel tardo Ottocento nella forma impropria dell’Ultra Bodoni, com’era chiamato. Nel 1929 Chauncey H. Griffith disegnò una variante extra bold, il Poster Bodoni. Con le sue grazie piramidali e i tratti spessi e sottili più pronunciati, fu uno dei numerosi, popolari, maldestri ibridi di caratteri classici presenti tra le casse di caratteri di ogni ordinaria tipografia. Era comunemente usato per i titoli e le citazioni a effetto nelle pubblicità e volantini più accattivanti.
Una forma più vicina all’originale fu messa in commercio ai primi del Novecento dall’American Type Foundry, che pubblicò il primo revival statunitense della famiglia del Bodoni nella versione di Morris Fuller Benton del 1909, seguita di lì al 1914 dal corsivo, dal bold e dall’ombreggiato. Fra il 1909 e il 1933 il Bodoni era molto comune nelle stamperie e nelle fonderie e indicato per le pubblicità di quotidiani e riviste, mentre il Bodoni Book, sempre di Benton, lo era per le pagine di testo dei libri.
Per i designer che non erano succubi dei lineari modernisti, il Bodoni era modernità con personalità, valida alternativa all’implacabile oscurità di Akzidenz ed Helvetica e alla geometria da seconda rivoluzione industriale del Futura. Quelle eleganti variazioni di spessore davano un tocco di stile alla pagina senza imporre quell’aspetto vintage proprio di epoche più decorative. Tra gli anni Trenta e Quaranta Paul Rand lo usava per gli annunci di clienti come Frazer Automobile e Disney Hats, e non era l’unico grafico pubblicitario a giocare con le sue forme sensuali. È famoso l’uso che fece di una “D” bodoniana sulla copertina della rivista culturale di sinistra Direction per commemorare il D-Day dello sbarco in Normandia. Quella “D” con una tomba al suo interno segnava la fine dell’egemonia nazista in Europa.
Nel suo delizioso libro Visual Persuasion: The Effect of Pictures on the Subconscious (McGraw Hill, 1961) Stephen Baker misurava l’impatto del Bodoni sulla grafica contemporanea. Il Bodoni Book, scriveva, è “leggero, ricco, bello, prezioso, pieno di significato, aggraziato, stretto, formale, morbido, buono, pulito, armonioso e corretto”. Sembra il giuramento del boy scout. E del Bodoni Book Italic scriveva che è “morbido, semplice, femminile, espressivo più tutto il resto degli attributi del Bodoni Book”. Ma rimproverava al Bodoni Ultra di essere “aggressivo, brutto, duro, forte, scuro, maschile e massiccio”.
Qualsiasi fossero le necessità del grafico di New York, il Bodoni serviva al suo scopo razionale. L’uso che lo ha reso più “New York-centrico” non è stato quello per logotipi e annunci (che spesso non erano Bodoni ma gli assai simili Didot), ma semmai quello per le pagine e le copertine di Harper’s Bazaar e per la sopracopertina del libro Observations: Photographs by Richard Avedon [Osservazioni: le fotografie di Richard Avedon] (1959) che si devono ad Alexey Brodovitch e che fanno tanto New York. I caratteri fortemente contrastati – specialmente il Bodoni – sembrano urlare (in modo raffinato) “MODA”. Ed è nelle mani di Brodovitch che il Bodoni ha conosciuto il suo uso più prodigioso. Finché da Milano non è arrivato in città Massimo Vignelli.
Vignelli soggiornò a New York per una borsa di studio dal 1957 al 1960 e nel 1966 vi ritornò definitivamente. Fece del Bodoni uno dei suoi cinque caratteri-firma, adottandolo come una specie di marchio personale. La sua ultima parola sul Bodoni è la migliore: “È uno dei più eleganti caratteri mai disegnati. Quando parlo di eleganza voglio dire eleganza intellettuale. Eleganza della mente.”
Casualmente intorno al 1960 circa 200 fra libri e opuscoli stampati con il torchio e prodotti da Giovanni Mardersteig e dalla sua Officina Bodoni finirono nelle mani dei bibliofili attraverso il Limited Editions Club di New York. Di qui ebbe inizio una mistica del Bodoni. E negli anni Ottanta l’editore italiano Franco Maria Ricci importò a New York i suoi libri e la sua rivista FMR; queste pubblicazioni, composte interamente nel suo raffinato Bodoni, possono aver contribuito alla rinnovata passione per il carattere. Una cosa era certa, il Bodoni non portava con sé lo stesso retaggio un po’ datato tipico di altri caratteri classici. Era elitario ma a disposizione di tutti, antico ma nuovo in tanti modi. Era meraviglioso in corpo piccolo per il testo e splendido in corpo grande per i titoli. Con la sua solenne grandezza e la sua splendida finezza era New York stessa.